L’internamento libero a San Piero a Sieve
Da ottobre 1942, fu internato a San Piero a Sieve il fiumano Rodolfo Chinchella, sospettato di attività antifascista. Il resto della sua famiglia, ossia il padre, la madre e la sorella, erano invece internati nel campo di concentramento di Fraschette di Alatri (Frosinone). Chinchella fece istanza al Ministero dell’Interno per ottenere il ricongiungimento di tutta la famiglia nel comune toscano, ma non lo ottenne. Dal suo fascicolo personale sappiamo inoltre che durante il suo soggiorno forzato a San Piero, Chinchella fu ricoverato all’Ospedale di Orbetello per scabbia, insieme ad un altro internato di Lubiana, Antonio Plut, sospettato di essere un informatore di ribelli. Nel 1952 Rodolfo Chinchella era ancora a San Piero in qualità di profugo di guerra, in attesa di ricevere un visto per emigrare negli Stati Uniti [Fig. 1].
Tra gli internati a San Piero da ottobre 1942 c’era anche il trentenne Michele Barin, di Zara. Il suo caso dimostra che il provvedimento di internamento non veniva applicato solo nei confronti di chi era sospettato di svolgere attività contraria al regime, ma anche nei confronti di quelli che erano considerati emarginati sociali, per tanto pericolosi per l’ordine pubblico [Fig. 2-3]. A pochi mesi dal suo arrivo a San Piero, ad aprile 1943, Michele Barin fu arrestato per furto dai carabinieri e portato nel carcere giudiziario de Le Murate a Firenze. Nel verbale del fermo, Michele Barin viene descritto come “elemento vagabondo, indisciplinato, dedito all’alcool, incline a frequentare cattive compagnie, trascurato [...] e quindi mal tollerato dalla popolazione di ogni ceto, e specialmente dagli elementi fascisti” [Fig. 4]. Per questo motivo da giugno 1943 fu trasferito nel campo di concentramento di Ariano Irpino (Avellino).