La condanna
Ai primi di novembre del 1301, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, entrò a Firenze, inviato da papa Bonifacio VIII per favorire una pacificazione tra le fazioni guelfe. Una volta in città, costrinse alle dimissioni i Priori e il Podestà in carica sostituendoli con altri e consentì il rientro degli esponenti dei Neri esiliati, facendo arrestare ed esiliare i capi dei Bianchi. In veste di Podestà (il rettore forestiero al vertice del potere giudiziario fiorentino) si insediò Cante de' Gabrielli da Gubbio, esponente tra i più intransigenti della fazione guelfa filopapale. Fu allora aperta una inchiesta sulla condotta del priorato degli anni 1300-1301 (anche se i priori che si erano susseguiti erano già stati sottoposti al sindacato, prescritto per legge al termine del loro incarico).
Nel gennaio del 1302, Dante (che all'epoca dell'ingresso a Firenze del "paciere" Carlo di Valois era trattenuto alla corte papale, dove era stato inviato in ambasceria), insieme ad altri ex priori, fu invitato a presentarsi davanti alla curia del Podestà; non essendosi presentato per evitare la prigione e la tortura, il 27 gennaio fu ritenuto reo confesso per via della sua contumacia e quindi condannato a una multa di 5.000 fiorini da pagare entro 3 giorni, pena l’espropriazione e la devastazione dei beni, due anni di confino e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
I capi d’accusa principali prevedevano: appropriazione indebita di denaro effettuata durante l’esercizio del priorato, l’uso di tali somme per interessi personali o comunque contro il papa e Carlo di Valois e contro il pacifico stato della città di Firenze e della Parte guelfa.
Il 10 marzo 1302 Dante, insieme ad altri 14 coimputati, fu condannato alla morte sul rogo; a questo punto il suo esilio divenne permanente.
Il Libro del Chiodo
L'originale della condanna di Dante si conservava un tempo presso l'archivio della Camera del Comune, situato nel Palazzo del Podestà, ma andò perduto nel corso di un incendio scoppiato durante i tumulti per la cacciata del Duca di Atene (1343). Una copia della condanna si conserva nel registro denominato Libro del Chiodo, appartenente all'archivio dei Capitani di Parte guelfa.
Il Libro del chiodo rappresenta una testimonianza capitale della storia di Firenze, non solo comunale, e fa parte dei cosiddetti “cimeli” ritenuti maggiormente evocativi e rappresentativi del patrimonio archivistico fiorentino. Redatto dalla Parte guelfa nella seconda metà del sec. XIV, a partire da precedenti liste e documenti, esso rappresenta un vero e proprio “schedario politico” di tutti i nemici della Parte e, “ovviamente” anche del Comune.
«Nel Libro del chiodo la imponenza fisica dell'aspetto (il formato reale, le assi rivestite di cuoio, ma soprattutto i chiodi minacciosi - uno il superstite - impressi sui piatti, anteriore e posteriore, della coperta) si lega intimamente alla forza delle suggestioni emotive che produce. Esso contiene infatti al suo interno le registrazioni dei Ghibellini (e dei Guelfi bianchi equiparati ai Ghibellini) dichiarati colpevoli di ribellione al comune e pertanto esclusi dalla vita politica cittadina e testimonia dell'affermazione della Parte guelfa in Firenze dai suoi esordi (1268) fino all'avvento del governo del reggimento, seguito al tumulto dei Ciompi del 1378. Il registro appare esser stato concepito per "inchiodare" perpetuamente all'isolamento e all'impotenza interi settori della società fiorentina» (cit. da Francesca Klein, Origini e trasmissione del Libro del chiodo negli archivi fiorentini; criteri di edizione, in Il Libro del chiodo. Riproduzione in fac-simile con edizione critica, a cura di F. Klein, con la collaborazione di Simone Sartini, Firenze, Polistampa, 2004).
Se il libro del chiodo storicamente può essere visto come una tappa di quel lungo braccio di ferro che oppose la Parte Guelfa e il Comune nei decenni centrali del ’300, dal punto di vista del mito dantesco, che proprio in quegli anni prese sempre più piede, esso si potrebbe configurare come una contro-narrazione dello stesso mito: così, mentre il Comune incaricava ufficialmente Boccaccio di tenere pubbliche lezioni della Commedia (agosto 1373; cfr. ASFi, Provvisioni registri, 61, c. 96v), la Parte invece ricordava come il medesimo poeta fosse stato un traditore del guelfismo e un ribelle al Comune, condannato per questo a morte.
Dante ribelle recidivo
Circa un decennio più tardi, profilandosi lo scontro tra Firenze e l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, il governo cittadino varò un’amnistia nei confronti di varie categorie di ribelli tra cui i Bianchi esiliati nel 1302. Alcuni rimasero però esclusi dalla grazia e tra questi proprio Dante, reo di avere in più occasioni pubblicamente manifestato il suo appoggio alla politica italiana dell’imperatore e di aver partecipato attivamente ai vari tentativi degli esiliati di riprendere il potere con le armi: dopo la presa del potere da parte dei “Neri”, infatti, i “Bianchi” cacciati da Firenze tentarono di rientrarvi con la forza delle armi e per riuscirvi non esitarono ad allearsi militarmente con gli ex nemici, i ghibellini; tra il 1302 e il 1304 vi furono così diversi scontri, tutti sfavorevoli ai fuoriusciti.
Nel 1315 – anno in cui, con la battaglia di Montecatini, le forze ghibelline sbaragliarono l’esercito fiorentino – maturò un altro provvedimento di amnistia. Dante, non essendosi presentato a rispondere all’amnistia e non essendosi sottomesso all’autorità del vicario regio, fu condannato a morte per decapitazione e al sequestro e alla distruzione dei beni, insieme ai figli (15 ottobre 1315). Per la prima volta alla condanna di Dante vengono associati i suoi figli maschi.
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