Concluse le prime indagini, il 18 gennaio 1914 il pubblico ministero pronunciò la sua requisitoria, evidenziando che molte delle dichiarazioni dell’imputato erano state confermate da alcune prove raccolte dalle autorità francesi, per esempio la testimonianza dell’operaio del Louvre che, la mattina del furto poco dopo le 7, aprendo la porta di accesso ad una scala di servizio vi trovò la maniglia svitata dall’interno e un operaio seduto su un gradino; oppure quella dell’uomo che vide qualcuno alle 7.30 circa sul Quai du Louvre, con un involucro di dimensioni corrispondenti a quelle del quadro, procedere rapidamente e gettare qualcosa in un fosso. Tuttavia altre circostanze dichiarate da Peruggia restavano incerte e davano adito all’ipotesi di concorso nel reato, prima fra tutte la sua affermazione circa l’assenza degli operai nel Salon Carrè quella mattina tra le 7 e le 7.30. Infine veniva individuato come capo d’imputazione il furto aggravato, poiché il reato era stato commesso in un pubblico ufficio e il bene era di ingente valore. Inoltre si precisava che, a seguito di formale richiesta del Governo francese, l’azione penale era procedibile per reato commesso all’estero. Il pubblico ministero chiedeva dunque al giudice istruttore di dichiarare chiusa l’istruttoria e disporre il rinvio al giudizio del Tribunale penale di Firenze.
La sentenza del giudice istruttore, di pochi giorni successiva, puntò a dimostrare che l’imputato non era “né un fanatico patriota né un mentecatto”, sottolineando anzi il “contegno scaltro serbato posteriormente” al furto. L’accusa sosteneva dunque che Peruggia non era né un incosciente né un irresponsabile, ma semplicemente ignorava che il Codice Penale italiano prevedesse la perseguibilità di un reato commesso all’estero da un cittadino italiano.
Venne dunque fissata l’udienza per il 31 marzo 1914, ma l’avvocato difensore presentò un’istanza per richiedere la perizia psichiatrica, motivandola così: “le circostanze indicano nell’imputato una assoluta deficienza del senso critico e quindi fanno sorgere ragionevoli dubbi sulla sua normalità”. La perizia venne depositata il 25 maggio e l’udienza fu quindi rinviata al 4 giugno.
La sentenza confermò sostanzialmente le posizioni già espresse dall’accusa, rigettando le conclusioni della perizia psichiatrica e ribadendo che lo scopo di lucro era dimostrato dalle lettere di Peruggia al padre in cui annunciava l’imminente fortuna che stava per conquistare e il suo prossimo rientro in Italia, ed era ulteriormente provato dal tentativo di vendita a Londra. Inoltre l’atteggiamento tenuto durante le trattative intraprese simultaneamente con ben due antiquari, dimostrava che non avesse agito in uno stato di infermità mentale, ma che anzi si fosse mosso con notevole astuzia. In base all’articolo 5 del Codice Penale (delitto commesso in territorio estero), all’art. 403 (aggravante per furto commesso in uffici, archivi o stabilimenti pubblici) e all'art. 431 (aggravante per l’ingente valore), venne dichiarato colpevole e condannato alla reclusione per un anno e 15 giorni, ai danni e alle spese processuali.
La sentenza di appello, pronunciata il 27 luglio 1914, confermava le considerazioni dei primi giudici, ribadendo che non era possibile ritenere che Peruggia avesse agito disinteressatamente e per un fine essenzialmente patriottico, e che al momento del furto fosse pienamente responsabile. La pena venne comunque ridotta a 7 mesi e 8 giorni, che risultarono già espiati con il carcere preventivo.